ARGENTINA/ IL 19 E 20 DICEMBRE 2001: LA BANCAROTTA E LA RIVOLTA POPOLARE
Due realtà molto diverse quelle argentina e italiana. Ma con elementi di analogia che dovrebbero far riflettere
SEBASTIÀN LACUNZA
BUENOS AIRES
Tanto lontano dall'Italia, tanto vicino all'Italia. Dieci anni fa, il 19 e 20 dicembre del 2001, gli argentini, disperati e pieni di rabbia, si riversarono nelle strade. Furono 48 ore drammatiche, che provocarono la caduta di un governo ma anche molto, molto di più. Quei giorni, mentre risuonava lo slogan «Que se vayan todos» significarono la fine della divinizzazione del mercato. Significarono anche che un paese che pretendeva di essere europeo si ritrovava nudo di fronte allo specchio e più latino-americano che mai.
Tanto lontano dall'Italia di oggi, eppure il racconto di quella storia avvicina due realtà così diverse. La situazione sociale che stava vivendo l'Argentina dalla metà degli anni '90 non è assimilabile a quella di alcun paese europeo odierno. Veniva da 25 anni di scossoni che l'avevano lasciata con la nostalgia del sogno del paese progressista e accettabilmente egualitario che voleva essere. L'apertura economica imposta dal peronista-conservator-populista Carlos Menem (1989-1999), aveva provocato nel '95 una disoccupazione del 18% senza nessun ammortizzatore statale per i disoccupati.
Basta ricordare alcuni flash di quella fine 2001. Gli ospedali pubblici non avevano più filo di sutura e lo Stato chiuse l'assistenza per i malati di cancro. I poveri, che erano ormai il 40% della popolazione, non andavano più dal dottore per risparmiare il costo del biglietto del bus. Le scuole della Gran Buenos Aires e delle grandi città si erano trasformate in mense che davano ai bambini il loro pranzo giornaliero, sovente l'unico. Dall'aeroporto di Ezeiza partivano aerei pieni che tornavano vuoti. A Ezeiza arrivavano anche, letteralmente, camion carichi delle ricchezze degli avvoltoi XXXXX che portavano via in tutta fretta i loro fondi dall'Argentina. Le province del nord vivevano una realtà inimmaginabile fatta di miseria, denutrizione infantilie e depressione. L'Argentina stava soccombendo di fronte alla peggior rottura sociale della sua storia.
Un quadro tragico che non trova paragoni nell'Europa di oggi ma neanche trova paragoni il livello di mobilitazione che seppero mostrare gli argentini. Da anni ormai le strade e le piazze erano il teatro di manifestazioni di disoccupati, professionisti, studianti e agricoltori.
Le aperture di Menem erano state indiscriminate e elogiatissime dal Fmi, dalle agenzie di rating e dall'Europa. Era stata creata una parità assolutamente artificiosa ma di grande impatto simbolico-mediatico fra il dollaro e il peso, mentre il paese indebitava senza fine. Una festa per i creditori che lucravano alti interessi in dollari.
Le privatizzazioni di Menem attrassero le compagnie europee che molte volte, con le tangenti già pronte da pagare, mettevano le mani su colossali bottini di facili guadagni. Menem, dopo anni di popolarità alle stelle (interna e internazionale), finì per affogare nella sua corruzione e nella sua frivolezza. I conti erano appesi a un filo e arrivò il peggior rimedio possibile: una coalizione elettorale di socialdemocratici, Ucr (Unión civica radical), peronisti dissidenti e liberali consacrò il conservatore Fernando De la Rúa alla presidenza della repubblica.
Era il dicembre del '99. Lo squallido De la Rúa si presentò con un'immediata decurtazione del 13% delle pensioni e del pubblico impiego. Mentre avviava una rincorsa dissennata ai tagli di bilancio, si scoprì che il suo governo aveva pagato tangenti in senato per far passare una legge di flessibilizzazione del lavoro. Frode politica, etica, sociale. Tutto veniva presentato da De la Rùa come un «ultimo sforzo per salvare il paese dalla bancarotta».
Ogni ministro dell'economia che s'insediava annunciava «la fine dello spreco» e nuovi colpi d'accetta. Ogni colpo d'accetta era premiato con una nota positiva di Standard & Poor's e Fmi che, precisavano, era necessario ma non sufficiente. Le ricette economiche mostravano grande inventiva per imporre nuovi tagli ai servizi pubblici, istruzione e pensioni (privatizzate nel '94 con una frode incommensurabile che fu in buona parte la causa della bancarotta dello Stato) e aumentare l'Iva, senza che mai arrivasse il momento di far pagare di più le transazioni finanziarie, la vendita di imprese, i creditori o le compagnie privatizzate, protette da contratti leonini garantiti dalla Banca mondiale.
Il «tasso di rischio» che oggi affligge l'Europa, qui si chiamava «rischio paese». Lo si seguiva minuto per minuto. Nel giro di qualche giorno passò da 500 a 800, da 1000 a 1500. Il governo De la Rùa negoziava degli accordi «blindati» con il Fmi che duravano lo spazio di un mattino. Mentre De la Rùa non dava una risposta positiva che fosse una, dall'inizio del 2001 svaniva la fiducia nel fittizio un peso-uguale-un dollaro, finché prese ad accelerarsi vorticosamente il ritiro dei depositi dalle banche. Si arrivò così nel dicembre 2001al famoso «corallito», che fissava in 250 pesos alla settimana il limite massimo di ritiro dei depositi. Quelle stesse banche che si erano installate con la promessa di una «solvenza» garantita dalle loro case-madri europee, si scoprirono allora solo argentine e sostennero di non avere fondi da restituire.
Nella notte del 19 dicembre, dopo un giorno di caldo estivo e di furia popolare, il suono delle casseruole battute si fece assordante e divenne un'ondata irresistibile. Improvvisamente tutta Buenos Aires fu un unico frastuono. I poteños si riversarono per strada e accesero l'incendio. Il giorno dopo, imperversarono i saccheggi nei barrios più umili e alcune forze oscure scatenarono una repressione feroce - colpendo anche le intoccabili Madri della Piazza di Maggio, la coscienza della nazione -, provocando 36 morti. Quello stesso pomeriggio il presidente conservatore truccato da social-democratico, abbandonava la Casa rosada in elicottero. Subito dopo aver firmato le dimissioni.
La fuga di De la Rùa aprì la strada a un paese assembleare, 5 presidenti in 10 giorni. Scambi in natura, mense popolari, manifestazioni di ripulsa (gli «escraches») sotto le case dei responsabili della crisi e dei sostenitori riciclati della dittatura militare, marce, sempre più «cacerolazos». La sospensione dei rimborsi di un debito arrivato al 150% del pil. Il default. L'improvvisa svalutazione del peso, estremamente traumatica. Fu come cominciare tutto di nuovo. Un altro paese, un'altra storia.
Due realtà molto diverse quelle argentina e italiana. Ma con elementi di analogia che dovrebbero far riflettere
SEBASTIÀN LACUNZA
BUENOS AIRES
Tanto lontano dall'Italia, tanto vicino all'Italia. Dieci anni fa, il 19 e 20 dicembre del 2001, gli argentini, disperati e pieni di rabbia, si riversarono nelle strade. Furono 48 ore drammatiche, che provocarono la caduta di un governo ma anche molto, molto di più. Quei giorni, mentre risuonava lo slogan «Que se vayan todos» significarono la fine della divinizzazione del mercato. Significarono anche che un paese che pretendeva di essere europeo si ritrovava nudo di fronte allo specchio e più latino-americano che mai.
Tanto lontano dall'Italia di oggi, eppure il racconto di quella storia avvicina due realtà così diverse. La situazione sociale che stava vivendo l'Argentina dalla metà degli anni '90 non è assimilabile a quella di alcun paese europeo odierno. Veniva da 25 anni di scossoni che l'avevano lasciata con la nostalgia del sogno del paese progressista e accettabilmente egualitario che voleva essere. L'apertura economica imposta dal peronista-conservator-populista Carlos Menem (1989-1999), aveva provocato nel '95 una disoccupazione del 18% senza nessun ammortizzatore statale per i disoccupati.
Basta ricordare alcuni flash di quella fine 2001. Gli ospedali pubblici non avevano più filo di sutura e lo Stato chiuse l'assistenza per i malati di cancro. I poveri, che erano ormai il 40% della popolazione, non andavano più dal dottore per risparmiare il costo del biglietto del bus. Le scuole della Gran Buenos Aires e delle grandi città si erano trasformate in mense che davano ai bambini il loro pranzo giornaliero, sovente l'unico. Dall'aeroporto di Ezeiza partivano aerei pieni che tornavano vuoti. A Ezeiza arrivavano anche, letteralmente, camion carichi delle ricchezze degli avvoltoi XXXXX che portavano via in tutta fretta i loro fondi dall'Argentina. Le province del nord vivevano una realtà inimmaginabile fatta di miseria, denutrizione infantilie e depressione. L'Argentina stava soccombendo di fronte alla peggior rottura sociale della sua storia.
Un quadro tragico che non trova paragoni nell'Europa di oggi ma neanche trova paragoni il livello di mobilitazione che seppero mostrare gli argentini. Da anni ormai le strade e le piazze erano il teatro di manifestazioni di disoccupati, professionisti, studianti e agricoltori.
Le aperture di Menem erano state indiscriminate e elogiatissime dal Fmi, dalle agenzie di rating e dall'Europa. Era stata creata una parità assolutamente artificiosa ma di grande impatto simbolico-mediatico fra il dollaro e il peso, mentre il paese indebitava senza fine. Una festa per i creditori che lucravano alti interessi in dollari.
Le privatizzazioni di Menem attrassero le compagnie europee che molte volte, con le tangenti già pronte da pagare, mettevano le mani su colossali bottini di facili guadagni. Menem, dopo anni di popolarità alle stelle (interna e internazionale), finì per affogare nella sua corruzione e nella sua frivolezza. I conti erano appesi a un filo e arrivò il peggior rimedio possibile: una coalizione elettorale di socialdemocratici, Ucr (Unión civica radical), peronisti dissidenti e liberali consacrò il conservatore Fernando De la Rúa alla presidenza della repubblica.
Era il dicembre del '99. Lo squallido De la Rúa si presentò con un'immediata decurtazione del 13% delle pensioni e del pubblico impiego. Mentre avviava una rincorsa dissennata ai tagli di bilancio, si scoprì che il suo governo aveva pagato tangenti in senato per far passare una legge di flessibilizzazione del lavoro. Frode politica, etica, sociale. Tutto veniva presentato da De la Rùa come un «ultimo sforzo per salvare il paese dalla bancarotta».
Ogni ministro dell'economia che s'insediava annunciava «la fine dello spreco» e nuovi colpi d'accetta. Ogni colpo d'accetta era premiato con una nota positiva di Standard & Poor's e Fmi che, precisavano, era necessario ma non sufficiente. Le ricette economiche mostravano grande inventiva per imporre nuovi tagli ai servizi pubblici, istruzione e pensioni (privatizzate nel '94 con una frode incommensurabile che fu in buona parte la causa della bancarotta dello Stato) e aumentare l'Iva, senza che mai arrivasse il momento di far pagare di più le transazioni finanziarie, la vendita di imprese, i creditori o le compagnie privatizzate, protette da contratti leonini garantiti dalla Banca mondiale.
Il «tasso di rischio» che oggi affligge l'Europa, qui si chiamava «rischio paese». Lo si seguiva minuto per minuto. Nel giro di qualche giorno passò da 500 a 800, da 1000 a 1500. Il governo De la Rùa negoziava degli accordi «blindati» con il Fmi che duravano lo spazio di un mattino. Mentre De la Rùa non dava una risposta positiva che fosse una, dall'inizio del 2001 svaniva la fiducia nel fittizio un peso-uguale-un dollaro, finché prese ad accelerarsi vorticosamente il ritiro dei depositi dalle banche. Si arrivò così nel dicembre 2001al famoso «corallito», che fissava in 250 pesos alla settimana il limite massimo di ritiro dei depositi. Quelle stesse banche che si erano installate con la promessa di una «solvenza» garantita dalle loro case-madri europee, si scoprirono allora solo argentine e sostennero di non avere fondi da restituire.
Nella notte del 19 dicembre, dopo un giorno di caldo estivo e di furia popolare, il suono delle casseruole battute si fece assordante e divenne un'ondata irresistibile. Improvvisamente tutta Buenos Aires fu un unico frastuono. I poteños si riversarono per strada e accesero l'incendio. Il giorno dopo, imperversarono i saccheggi nei barrios più umili e alcune forze oscure scatenarono una repressione feroce - colpendo anche le intoccabili Madri della Piazza di Maggio, la coscienza della nazione -, provocando 36 morti. Quello stesso pomeriggio il presidente conservatore truccato da social-democratico, abbandonava la Casa rosada in elicottero. Subito dopo aver firmato le dimissioni.
La fuga di De la Rùa aprì la strada a un paese assembleare, 5 presidenti in 10 giorni. Scambi in natura, mense popolari, manifestazioni di ripulsa (gli «escraches») sotto le case dei responsabili della crisi e dei sostenitori riciclati della dittatura militare, marce, sempre più «cacerolazos». La sospensione dei rimborsi di un debito arrivato al 150% del pil. Il default. L'improvvisa svalutazione del peso, estremamente traumatica. Fu come cominciare tutto di nuovo. Un altro paese, un'altra storia.